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Con l’inizio di maggio ricomincia la millenaria consuetudine di ritornare con le greggi e con le mandrie sui monti del Matese, ripopolando le praterie d’altura.

Tra i piani carsici, caratteristiche doline tra le cime matesine, e le distese prative ai piedi del Miletto, della Gallinola, greggi di pecore e sparute piccole mandrie di vacche (non mucche… questo è solo un onomatopeico ingentilire della “vacca che fa muuu”) ricominceranno a pascolare, foraggiandosi della fresca erba che cresce dopo lo sciogliersi delle nevi (…chissà per quanto ancora!). 

La secolare tradizione della monticazione (risalita a monte dalla piana del Volturno), ancora molto in uso sul versante tirrenico del Matese e il ritorno dalla transumanza dalle terre della Capitanata, ormai quasi totalmente dismessa, involontariamente ma preziosamente restano il fondamentale momento per il mantenimento della biodiversità delle praterie di montagna.

Un’azione, appunto, involontaria perché le genti matesine, inconsciamente, potevano ignorare il concetto scientifico di biodiversità ma hanno sempre conosciuto la bontà assoluta dei pascoli montani per i loro animali nel periodo più caldo dell’anno: da maggio ad ottobre. Laddove la calura di pianura rende quasi sterili i pascoli di valle, la montagna del Matese, nei suoi altipiani, resta sempre rigogliosamente verdeggiante e foriera di uno straordinario pascolo. 

Ma laddove le pecore o le vacche riescono ad ottenere tanto bene e benessere nell’alimentazione e con le fresche fonti, altrettanto riescono a dare a Madre Natura. Il pascolo diviene il miglior modo per diffondere semi di piante, spore di funghi, disseminare fertilizzante naturale che rinvigorisce la lussureggiante biodiversità. Lì dove il pascolo dei ruminanti selvatici non riesce a fare se non in modo marginale. Ecco che così oggi parliamo di “Agro-Biodiversità”, un patrimonio incommensurabile nato dalla simbiosi tra la natura spontanea e quella antropica: un criterio esemplare per poter spiegare il concetto (inflazionato) di sostenibilità. 

Se volessimo pensare a delle preziose peculiarità di biodiversità, potremmo dire che senza il pascolo non riusciremmo ad avere delle specie vegetali di pregio, come il Timo (Thymus praecox), lo Spinacio selvatico o Buonenrico (Chenopodium bonus-henricus), il Latte di Gallina o Stella di Betlemme (Ornithogalum umbrellatum) e tantissimo altro ancora. Così come tantissime specie di funghi “fimicoli” (che crescono proprio grazie agli escrementi), utili e necessari non solo all’uomo-raccoglitore ma soprattutto necessari per la decomposizione di materiale organico e fertilizzazione dei terreni.  Persino alcune specie animali riescono a vivere e nutrirsi, grazie alle attività pascolative. Basti pensare che la Coturnice (Alectoris graeca) si sta ripopolando anche grazie alle larve coprofile che vivono e si sviluppano negli escrementi di grossi ruminanti al pascolo.   Ma le attività pascolative estensive (ossia non concentrate in pochi allevamenti numerosi e chiusi in stalle) sono fondamentali anche per evitare che sia solo il bosco l’unico habitat della nostra montagna. Immaginando solo bosco, non riusciremmo ad avere tanta diversità vegetale, animale e fungina che oggi sappiamo caratterizzare questa fetta di Appennino Centro-Meridionale. 

Insomma il pascolo, fonte di resilienza per millenni con relative poche mutazioni d’essere dalla preistoria all’antropocene lo possiamo definire sicuramente un vero e proprio “servizio ecosistemico”. 

Basta essere solo un po’ attenti e comprendere tutto ciò: il mantenimento del criterio millenario della pastorizia, migliorato solo con beni e strumenti attuali che rendono più vivibile il modo di lavorare, e la conseguente agro-biodiversità, saranno la risorsa che rende uniche e ricche le “Praterie del Matese”.  

Dr. Vincenzo D’Andrea

Medico Veterinario